

Da un’idea di Fabrizio Bentivoglio
Fabrizio Bentivoglio: voce
Ferruccio Spinetti: contrabbasso
Coordinamento artistico e distribuzione: Elena Marazzita in collaborazione con BubbaMusic
Registrato live a Molfetta il 2 Giugno 2022 alla Cittadella degli Artisti.
Mix e Masterizzazione: Alessandro Guasconi – Virus Studio Siena.
Un ringraziamento particolare a Luigi Febbraro.
Foto di Angelo Trani.
Montaigne giovinetto era svegliato, ogni mattina, per ordine del padre, da alcuni musici che suonavano un concerto. Si voleva evitargli un brusco trapasso dal sogno alla realtà. Noi siamo svegliati dal silenzio, che non promette niente di buono, perché è un silenzio che ci sembra far parte del sogno, mentre è una breve pausa della realtà. Per evitarci un brusco trapasso i nostri musici dovrebbero bastonarci.
[“Il Mondo”, 1957]
Mi telefona un tale per dirmi che sta facendo una piccola inchiesta e vorrebbe che gli rispondessi a questa domanda: di che nazionalità vorrei essere se non fossi italiano.
Viviamo nel secolo delle domande. Chiudo gli occhi, aspiro profondamente e rispondo: “Prima di tutto bisognerebbe provare che sono italiano. Vediamo di riuscirci, con una dimostrazione per assurdo, ma ne dispero. Dunque: non sono fascista, non sono comunista, non sono democristiano: ecco che mi restano forse venti probabilità su cento di essere italiano. Non scrivo e non parlo il mio dialetto, non adoro la città dove sono nato, preferisco l’incerto al certo, sono per natura dimissionario, detesto il paternalismo, le dittature e gli oratori. Il gioco del calcio non mi entusiasma, lo sopporterei se sul campo i giocatori fossero ventimila e il pubblico ventidue persone, non ascolto la radio e non guardo la televisione: ignoro perciò gli eroi di queste attività di cui tutti sanno dirvi vita e miracoli. Pago le contravvenzioni, non ho amici negli uffici importanti e mi sarebbe penoso partecipare a un concorso. Non so cantare e non mi piace sentir cantare gli altri, se non a teatro. Non scrivo versi. Sono italiano? Ho conservato sempre gli stessi amici, mi piace viaggiare per l’Italia e quasi ogni luogo mi incanta e vorrei restarci. Sotto quest’aspetto potrei essere un inglese. I grandi problemi mondiali mi lasciano perplesso e non ho per ognuno di essi un giudizio preciso e definitivo: sono forse indiano? Così pure mi stimo abbastanza prudente nel giudicare il prossimo e trovo che la maggior parte delle persone che conosco sono ottime e gli auguro ogni bene. Esquimese? Leggo libri di autori italiani, classici e moderni, e ammiro i nostri artisti e qui potrei dirmi americano. Adoro il sole, il mare caldo, l’Etruria e la Campania e in questo potrei riconoscermi tedesco. Se visito un museo non parlo ad alta voce e se vado in una biblioteca non tento di portarmi via un libro o le sue illustrazioni. Sono forse svedese? Non mi interessano i processi, la cronaca nera, la vita mondana. Eremita? Non scrivo il mio nome sulle rovine o sui muri dei monumenti. Analfabeta? Pago i miei debiti, anzi evito di farne, non ammiro le grandi qualità dei popoli che non conosco, la morte non mi spaventa, sto volentieri in piedi la notte e una compagnia che superi le quattro o cinque persone mi annoia francamente. Spagnolo? In treno non racconto episodi della mia vita, né do giudizi sull’Italia meridionale, gli uomini mi interessano per il loro carattere, nelle donne ammiro molto anche l’intelligenza, che non mi suscita sentimenti di invidia o di disprezzo. Tuttavia, che io sia italiano potrebbe essere innegabile: infatti mi piace dormire, evitare le noie, lavorare poco, scherzare, e ho un pessimo carattere, perlomeno nei miei riguardi. Bene, se non fossi italiano, a questo punto, non saprei che farci. Probabilmente, non sarei niente e questo dimostra, in fondo, che sono proprio italiano. Allora? La sua domanda è senza risposta. Si consoli pensando che per molti l’italiana non è una nazionalità, ma una professione”.
[“Il Mondo”, 1957]
Come la maggior parte degli italiani sono un emigrante interno. Da ragazzo amavo molto il paese dove vivevo, mi sembrava bellissimo, abitato da gente dolce e arguta. Poi quando vidi come cresceva e s’espandeva senza grazia, quando vidi distruggere una pineta per farne legna da ardere, o tagliare i platani di una passeggiata per metterci le rotaie del tram, quando vidi devastare un giardino pubblico per farvi un ufficio, e la gente applaudire, capii che l’arguzia, la dolcezza dei miei compaesani era soltanto apparente e che il fondo era stupido e cieco. Dovetti andarmene, capitai a Roma, che conoscevo a memoria sui libri e che amavo: e da vent’anni assisto alle stesse distruzioni, su scala più grande. L’amore che portavo a Roma s’è infine raffreddato, ora mi piace persino il mio paese, così spelacchiato com’è e difficile a riconoscersi. Spesso penso che la vera saggezza sia di continuare a vivere dove si nasce. Una volta credevo soltanto nella fuga.
[“L’Espresso”, 1957]
Signor Sindaco, credo ormai di aver capito come si costruisce una strada in un quartiere nuovo, a Roma. Così: si istalleranno dapprima in aperta campagna i pali con il nome della strada che si vuol tracciare, facendo bene attenzione che il nome scelto non abbia nessun riferimento coi luoghi ma sia di mediocre personalità scomparsa da almeno dieci anni e quindi dimenticata. Si costruiranno subito dopo le case della strada (meglio se enormi palazzi a otto piani vivacemente colorati), sempre lasciando intatti i naturali avvallamenti del terreno tra casa e casa, avendo anzi cura che si trasformino in palude nei giorni di pioggia. Una volta abitate le costruzioni (intanto si sarà provveduto ad abbattere tutti gli alberi che deturpano i cantieri edilizi e ostacolano le manovre degli autocarri), si farà uno scarico di materiale pietroso sul terreno riservato alla strada vera e propria. Questo materiale non andrà tuttavia distribuito per tutta l’area, ma sistemato in piccole piramidi, che sarà bene lasciare per almeno un anno al loro posto, per facilitare i giochi dei ragazzi. Trascorso questo tempo si passerà a un livellamento sommario della pista e alla costruzione dei marciapiedi, che dovranno risultare alti circa un metro sul livello della suddetta pista, per evitarne l’uso sconsiderato da parte dei pedoni. L’anno seguente si appresterà infine la strada propriamente detta, con la sua massicciata di cemento e i necessari strati di catrame. Questo lavoro, tuttavia, sarà bene interromperlo a metà, per riprenderlo con maggior lena l’anno successivo e portarlo quindi a termine. Due giorni dopo che la strada sarà stata inaugurata, si renderà utile riaprirla nel senso della sua totale lunghezza per la istallazione dei tubi del gas illuminante. La strada, dopo tale necessario lavoro, che apporterà grande beneficio ai suoi abitanti, apparirà con una marcata gobba nel centro. Non dovremmo preoccuparcene, poiché un mese dopo (in certi casi, una settimana dopo) la stessa strada dovrà essere riaperta per la seconda volta, sempre nel senso della sua lunghezza e con trincee trasversali, per l’istallazione dei cavi indispensabili al trasporto dell’energia elettrica. A questo punto si potrebbe pensare che noi approfitteremmo della singolare circostanza per sistemare definitivamente anche i pali della luce, sui marciapiedi. No, signor Sindaco, tale lavoro sarà bene rinviarlo sempre alla stagione invernale, quando il fango lo renderà più interessante. Comunque, la sistemazione dei suddetti pali precede, per solito, di un mese appena, talvolta di quindici giorni, l’istallazione dei tubi per il deflusso dell’acqua potabile, che richiederà una terza, più vasta e impegnativa, riapertura della sede stradale e il ripristino delle caratteristiche trincee. In certe strade si potrà addivenire a una quarta apertura della massicciata (o dei marciapiedi), per il passaggio dei cavi del telefono. Ma si tratta, signor Sindaco, di strade “signorili”! Nelle strade dei quartieri popolari gli impianti del telefono saranno possibili col ragionevole ritardo di almeno cinque anni. Quindi, per quanto concerne i cavi del telefono, si potrà aspettare che siano avviati i necessari lavori di restauro alla massicciata, con quale economia lascio a lei immaginare. Qualora poi, per renderla gaia e salubre, si volesse adornare di alberi la nostra strada, si provvederà, con un’opportuna riapertura dei marciapiedi, a piantare, a conveniente distanza l’uno dall’altro, arbusti di gerani già secchi: per evitare sia l’ombra (per quanto piccola possa essere) che questi alberi fanno, sia un’eccessiva vivacità di colori che andrebbe a scapito dell’arcobaleno edilizio. Altri alberi già secchi che potranno essere piantati convenientemente (ma solo nei viali) sono il pino marittimo secco e l’acacia secca. Quest’ultima, signor Sindaco, è forse più consigliabile poiché le sue radici, raggiungendo facilmente i condotti e le tubature poste, come sappiamo, nel sottosuolo, possono danneggiarle e rendere necessaria una quinta, e non necessariamente ultima, riapertura della sede stradale: essendo la sesta per solito riservata all’eventuale istallazione delle fogne.
[“Il Mondo”, 1956]
I ladri (favola arguta) – Quando i ladri presero la città, il popolo fu contento. Fece vacanza e bei fuochi d’artifizio. La cacciata dei briganti autorizzava ogni ottimismo e i ladri, come primo atto del loro governo, riaffermarono il diritto di proprietà. Questo rassicurò i proprietari più autorevoli. Su tutti i muri scrissero: “Il furto è una proprietà”. Leggi severe contro il furto vennero emanate e applicate. A un tagliaborse fu tagliata la mano destra, a un baro la mano sinistra (che serve per tenere le carte), a un ladro di cappelli, la testa. Poi si sparse la voce che i ladri rubavano. Dapprincipio, questa voce parve una trovata della propaganda avversaria e fu respinta con sdegno. I ladri stessi ne sorridevano e ritennero inutile ogni smentita ufficiale. Tutto parlava in loro favore, erano stimati per gente dabbene, patriottica, ladra, onesta, religiosa. Ora, insinuare che i ladri fossero ladri sembrò assurdo. Il tempo trascorse, i furti aumentavano, un anno dopo erano già imponenti, e si vide che non era possibile farli senza l’aiuto di una grossa organizzazione. E si capì che i ladri avevano quest’organizzazione. Una mattina, per esempio, ci si accorgeva che era scomparso un palazzo del centro della città. Nessuno sapeva darne notizia. Poi sparirono piazze, alberi, monumenti, gallerie coi loro quadri e le loro statue, officine coi loro operai, treni coi loro viaggiatori, intere aziende, piccole città. La stampa, dapprima timida, insorse: sparirono allora i giornali coi loro redattori e anche gli strilloni, e quando i ladri ebbero fatto sparire ogni cosa, cominciarono a derubarsi tra di loro e la cosa continuò finché non furono derubati dai loro figli e dai loro nipotini. Ma vissero sempre felici e contenti.
Nota. I compilatori di un libro di lettura per le scuole elementari mi avevano chiesto una favola arguta per i bambini dai sette ai dieci anni. Ho inviato loro questa favola, l’hanno respinta cortesemente, dicendo che “non era adatta”. Forse non è una favola arguta. O forse non è nemmeno una favola.
[“Il Mondo”, 1960]
Un corridore automobilista scrive un articolo dando consigli sul modo di guidare l’automobile. Raccomanda per esempio di non prendere le curve contromano e di tenersi sempre nella propria carreggiata “soprattutto perché è più elegante”. Elegante! Ecco la parola, l’argomento che cercavo da tempo! Si, perché l’eleganza è il solo nostro affanno. Accettiamo ogni riserva sulla nostra condotta ma un sospetto sulla nostra eleganza ci turba e ci offende profondamente. Oh, poter applicare questo metodo di critica ai ladri, agli assassini, ai truffatori, stabilire una volta per sempre che rubare non è elegante, assassinare non è elegante, truffare è sommamente inelegante. Quando i reprobi saranno colpiti non dal disprezzo dei moralisti, che anzi li eccita, ma dal velato sdegno delle persone eleganti, il più sarà fatto, potremmo sciogliere anche il corpo di polizia; che del resto ha dimostrato di capire le vere esigenze dei tempi, adottando proprio in questi giorni una nuova divisa, molto elegante.
[“Il Mondo”, 1956]
Novellino. Giacomo scese dalla sua automobile e cavò di tasca la chiave per aprire il cancello del cortile, dov’era il garage. Qui cavò di tasca un’altra chiave. Quand’ebbe calata la serranda, ritornò verso l’atrio: dovette aprirlo facendo forza con un’altra chiave e la porta a vetri tremolò. Anche l’ascensore si apriva con una chiave, per impedire ai ragazzi di scrivere porcherie sul legno della gabbia. La porta di casa si apriva con due chiavi, questo da quando Giacomo aveva avuto la visita dei ladri. La serratura aggiunta scattava quattro volte. Giacomo entrò nel suo studio, aprì con un’altra chiave un cassetto della sua scrivania e prese una scatola. Era piena, appunto, di chiavi: residui di traslochi, di bauli finiti nella soffitta, di porte dimenticate, di ascensori lontani. Tutte avevano aperto qualcosa e Giacomo non aveva mai osato buttarle via per il timore – che le chiavi incutono sempre – di una loro possibile utilità. Qui, sfinito, Giacomo si mise a pensare al suo futuro. Fece due ipotesi. La prima era piena di altre chiavi. Tre di queste chiavi erano della villa che voleva farsi al mare; anzi, a calcolare meglio (cancello, porta, servizi, garage) erano quattro: senza contare la chiave della cantina. C’era poi la chiave del motoscafo (o erano due?) e la chiave della cabina. Poi vedeva un’altra chiave… che si rendeva necessaria… la cappella di famiglia. Comunque c’era tempo per pensarci. Un altro mazzetto di chiavi, queste gentili, dondolavano all’altezza dei suoi occhi, nel vuoto, tintinnando. Erano le chiavi di una garçonnière che un amico voleva cedergli. Non sapeva decidersi.
Rasserenato da questa seconda ipotesi, Giacomo aprì l’armadio dei liquori con una chiave dorata e si versò due dita di cognac.
[“Panorama”, 1963]
Crediamo di avere un nome, ce lo ripetiamo lo scriviamo dappertutto, ma la società ci ammonisce. Non il nostro nome le interessa, ma la nostra funzione e, in senso burocratico, la nostra posizione. Cosicché, volta a volta, noi siamo astanti, iscritti, sottoscritti, presenti, passanti, contribuenti, utenti, usufruttuari, richiamati, abbonati, associati, ricorrenti, fedeli, credenti. Siamo destinatari, mittenti, depositari, conducenti, correntisti, coniugi, perenti, acquirenti. Siamo in carica, in ausiliaria, in aspettativa, in ferie, fuori posto. Brilliamo dunque sempre sotto aspetti diversi ma per motivi precisi, mai per quel che crediamo di essere in sostanza. E quando lo crediamo, allora eccoci imputati.
[“Il Mondo”, 1957]
La pera. Molti anni fa, nel terzo o quarto anno del suo mandato presidenziale, fui invitato a cena al palazzo del Quirinale, da Luigi Einaudi. Non invitato ad personam – il Presidente non mi conosceva affatto – ma come redattore di una rivista politica e letteraria diretta da Mario Pannunzio. A tavola eravamo in otto, compresi il Presidente e sua moglie. Otto convitati è il massimo per una cena non ufficiale, e la serata si svolse dunque molto piacevolmente, la conversazione toccò vari argomenti, con una vivacità e una disinvoltura che davano fastidio all’enorme e unico maggiordomo in polpe che ci serviva. Questo maggiordomo, una specie di Hitchcock di più vaste proporzioni ma totalmente destituito di ironia, aveva sulle prime tentato di intimidirci posandoci il prezioso vasellame davanti come se temesse che l’avremmo rotto; e fulminandoci con occhiate di sconforto se non riuscivamo a individuare tra le tante (alcune nascoste persino tra i merletti della tovaglia) le posate giuste.
Qui finiscono i miei ricordi sul presidente Einaudi. Non ebbi più occasione di vederlo, qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Italia la repubblica delle pere indivise.
[“Corriere della Sera”, 1970]
Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quei pochi che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? È improbabile. L’età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro unica verità, noi ne abbiamo infinite versioni. Le cause? Lascio agli storici, ai sociologhi, agli psicanalisti, alle tavole rotonde il compito di indicarci le cause, io ne subisco gli effetti. E con me pochi altri: perché quasi tutti hanno una soluzione da proporci: la “loro” verità, cioè qualcosa che non contrasti i loro interessi. Alla tavola rotonda bisognerà anche invitare uno storico dell’arte per fargli dire quale influenza può avere avuto il barocco sulla nostra psicologia.
In Italia infatti la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi.
[“Corriere della Sera”, 1972]
Il tempo. Non è certo piacevole spulciare la propria esistenza e accorgersi che si riduce ad un mucchietto di parole, a poche idee, a pochi nomi: le prime mal formulate, i secondi che prendono un suono falso, come se servissero a coprire la nostra povertà e a fornirci un alibi. E se una volta infine stabilite le nostre contraddizioni passate e presenti, ci salvassimo almeno da quelle future. Comunque, seguitiamo: da giovane non credevo che alle cose tangibili e alla parte di vita che mi spettava, ora mi accorgo che la forza che mi muove è diversa e non c’è niente di inutile. Il passare del tempo mitiga la nostra vanità, il nostro furore, placa il giudizio e il disprezzo. Non si sente più il bisogno di distruggere, ammiriamo più il carattere che l’intelligenza. Molte persone care e amiche sono scomparse: sembravano dimenticate, ci accorgiamo adesso che sono più vive di prima attorno a noi, che anzi le facciamo rivivere col nostro ricordo. Ci tengono compagnia, c’è un conforto nella loro costante attenzione; che non può essere, tuttavia, soltanto frutto della nostra volontà. Diamo alla parola vita un significato più intimo. Da ragazzo dubitavo della famiglia e invidiavo gli orfani.
[“L’Espresso”, 1957]
La sera del ritorno del Figliol prodigo tutti erano stanchi per le emozioni e il gran cibo. A tavola, sino a tardi, mangiando i resti del vitello grasso, con il solito vino che aveva acceso i discorsi e ora invitava al canto. Solo il figliol prodigo taceva. Era alla destra del padre, con le dita arrotolava palline di mollica, ogni tanto volgendosi ai commensali con un sorriso di umile bontà. Era già notte quando la festa finì. Per qualche momento l’aia risuonò dei saluti degli invitati, e di canzoni. Il figliol prodigo trovò lenzuola ruvide e fresche, il materasso rifatto e vi affondò in un sonno pieno di rimorsi che si andavano placando. Alle otto del mattino dormiva ancora e la casa era in faccende. Il padre disse che bisognava lasciarlo dormire.
>Nessuno gli rispose. Alle dieci si sentì la voce del figliol prodigo che chiamava dalla sua stanza, chiedendo la colazione e il giornale. Una giovane sguattera mormorò allora, ma non tanto a bassa voce da non essere sentita: “Ci risiamo”. Il padre uscì verso la corte.
[“Corriere della Sera”, 1969]
Una lettera. Anni fa, in un suo lucido scritto, Alberto Spaini suggerì che il Principe di Machiavelli andava letto in chiave di satira. Il destino delle satire, e Swift ne sa qualcosa, può essere la loro trasformazione in lettura per l’infanzia. Il motivo che ha impedito al Principe di mutarsi in una strenna per ragazzi è tutto nella qualità tragica dell’umorismo machiavelliano, che non sopporta illustrazioni e non apre strade alla favola; e che dunque viene scambiato per cinismo, diabolica concezione della politica. Ma il proponente aveva le sue ragioni; egli indicava nel Principe non un manuale how-to-do-it sulla eventuale conquista e conservazione del potere, ma un racconto (sotto forma di trattato) di ciò che, semplicemente, nel suo tempo, principi e duchi, marchesi e papi, senati di repubbliche e re, governatori e capi di parte, facevano realmente per annientare i loro nemici e mantenere appunto il potere. Il cinismo non è in Machiavelli, ma nell’italiano di allora; il quale, appena al comando di uno stato o di una città o di un semplice ufficio, ordinava trame e alleanze per mantenervisi. E tentava subito di annientare il proprio diretto concorrente, favorito in ciò dalla mancanza di un potere centrale: donde gli odi incolmabili tra città e città, che tuttora sussistono.
È quindi senza sorpresa che un giorno della scorsa estate ebbi una lettera, senza firma né data o luogo di provenienza: della quale do contenuto a memoria, avendola purtroppo perduta riordinando i cassetti. Dopo un esordio pro-machiavelliano, la lettera continuava dicendo che tutte le storie d’Italia che si scrivono oggi partono dalla premessa che la Storia non sia la storia della libertà, come vuole il filosofo di Pescasseroli, ma che il suo scopo particolare e più caramente diletto sia invece stato l’Unità del nostro paese. Ora sarebbe interessante – continuava l’anonimo – scrivere del periodo che va dalla proclamazione di quest’unità ai nostri giorni: e studiarlo come un’occupazione dell’Italia non più da parte dei Goti, dei Longobardi, dei Normanni, degli Svevi, dei Francesi, degli Spagnoli e degli Austriaci, eccetera; ma soltanto da parte degli Italiani. Considerare dunque gli Italiani come un popolo che ha occupato la Penisola e la sta semplicemente dominando. Su questi italiani (che gli indigeni, ormai finiti nelle loro riserve, considerano accettabili e persino simpatici se presi uno a uno, ma detestabili se presi anche in modeste quantità politiche), i giudizi sono severi: l’unione li ha resi arroganti e avidi, portati al disprezzo dei loro monumenti, tendenti alla burocrazia più sfrenata e alla confusa interpretazione delle leggi, attaccati al loro più abbietto “particulare”, vivaci nell’odio del prossimo e per di più eternamente irresponsabili. Sicché l’eventuale Principe non dovrebbe rompersi la testa per governarli, ma soltanto trasformare le loro tendenze in una energia che li tenga divisi nell’unione, paradosso che non sarebbe accettabile se già non sapessimo che gli italiani amano soltanto i paradossi e fondano, per dirne una, tutta la loro politica interna sulle “divergenze parallele”, lasciando che la politica estera sia basata sulle “parallele convergenti”.
Una volta il colpo è riuscito: nel Principe (o duce), che riassumeva ed esemplava tutti i loro difetti, ed emergeva nella improvvisazione e nella stupidità, due doti nazionali, gli Italiani si riconobbero e si applaudirono. Non se ne sarebbero mai liberati senza una guerra che percorse come un rastrello l’Italia da capo a piedi. (Guerra, si badi bene, non voluta dagli Italiani, ma soltanto dal loro incauto Principe). Poi le cose cambiarono e ora c’è un intoppo: la dominazione italiana continua, ma confusa. Le tribù originarie si sono inestricabilmente mischiate. Ab ovo, queste tribù, o sette, o clan, si distinguevano per un preciso carattere negativo ed erano di grande utilità al Principe per le sue mene. Diciamo, per esempio, che una tribù era interamente composta di ladri, una seconda di costruttori, una terza di distruttori, una quarta di legulei, e via dicendo: protestatari, spie, preti, ricchi sfondati, strozzini, mafiosi, camorristi, storici e filosofi del regime: e non dimentichiamo i ditirambici.
Ora queste tribù, sette, clan, si dominano da loro stesse, in una continua contraddizione che annulla ogni possibile autorità e anche la più modesta armonia. Da questa insulsa dominazione sono venuti agli indigeni tutti i mali che li affliggono: la devastazione “costruttiva” del paese, la corsa sfrenata verso quelli che essi ritengono i piaceri della vita: sterminio della natura, furti di beni dello stato, costruzione intensiva di orribili abitazioni che essi chiamano ville, frantumazione di idee, libertà intesa come prigionia del proprio vicino, amore forsennato per lo sport fatto da altri, frodi alimentari, disboscamento, suoni e luci, rumori molesti, distruzione di parchi per far posto alle automobili; che sono i soli feticci tenuti da conto. La dominazione italiana in Italia ha naturalmente portato anche dei benefici: L’abolizione dei confini fra stati e staterelli, la costruzione di una imponente rete stradale, l’aumento del reddito, l’aumento del contrabbando, la distruzione della scuola e la persecuzione dei cristiani. La lettera concludeva con dei saluti cordiali.
[“Corriere della Sera”, 1970]
Siamo in campagna, io e un amico, seduti davanti al cancello della sua casa. Dobbiamo parlare di una storia, per il cinema, e nessuno ha voglia di dire la prima parola, come se a scatenare le modeste immagini che suggeriscono appunto la storia e la sua protagonista, questo nostro pomeriggio perdesse ogni senso e il paesaggio scomparisse. Siamo tutti e due d’accordo nel voler fare una storia vera, con un personaggio vero. Ma che cos’è la verità? Ah, potercene anche noi lavare le mani! E così aspettiamo socchiudendo gli occhi, ognuno sperando che l’altro taccia ancora; o, se proprio vorrà parlare, che accenni a quelle amabili sciocchezze sul tempo, sui primi amori, sugli incontri del giorno prima, che formano, in città, la delizia di queste conversazioni di lavoro. Ora, però, il silenzio diventa sospetto; continuando a tacere si dovrà, una volta per sempre, parlare della storia e della sua immobile protagonista. Anzi, ogni attimo che passa rende più inevitabile una discussione seria. Insieme diciamo: “Sembra che il tempo…”. Ma, verso ponente, il cielo rosa annunzia una sera calma e stellata: inutile parlarne. Uno sguardo disperato agli orologi e l’amico conclude: “Lavoriamo seriamente un’oretta. Dopo, il paese si animerà, non dobbiamo perderci lo spettacolo”. Benissimo, lavoriamo. E dal fondo pigro della nostra immaginazione avanza, ancora informe, ma già diffidente, il volto dell’attrice che aspetta una nostra decisione sul suo destino. “E’ una ragazza di queste parti” dice l’amico di colpo, con uno sforzo che gli ammiro. “D’accordo” dico. “E’ una povera ragazza di queste parti, che lavora e vuole andare in città”. È un’ipotesi abbastanza probabile. Ci pensiamo su un momento. Ora passa davvero una ragazza. “Non farti accorgere che la osservi,” dice l’amico “ma ti prego di guardarle gli occhi. Dimmi se hai mai visto un paio di occhi simili. Occhi da gatto. Ti mangerebbe, se potesse”. La ragazza, infatti, ha occhi molto belli, obliqui, in un volto disfatto dalle sue mediocri avventure. “Pensa,” aggiunge l’amico “io me la ricordo che aveva un fidanzato. Non potevano sposarsi per mancanza di soldi, lei fece un bambino e lui si squagliò”. “In città, naturalmente”. “Si, in città. Non si è più visto”. Silenzio. Ognuno rivive a rapidi balzi la storia di questa ragazza, che sta passando, ognuno pensa che forse un tipo così, per la nostra storia… “Si, e poi che le succede?” domanda l’amico, come se io fossi responsabile delle molte cose che le possono succedere, tutte ovvie e poco esemplari. Ma già la ragazza si allontana, e con essa ogni fantasia che la riguarda. “Osserva come cammina” dice l’amico, che non ha perso l’ultima speranza. No, è già tardi. Un’altra ragazza esce dalla sua casa, inforca la bicicletta, si sta avvicinando. “E questa? Pensa, va matta per il ballo, ma proprio matta! Quando attacca l’orchestra nessuno più la tiene, diventa un’altra. Che ne dici?”. Rispondo con un mugolìo. “Si, va bene,” aggiunge l’amico, prevenendomi “e dopo, che fa? Sposa l’orchestra?”. Ora passano quattro ragazze, allacciate, parlando fitto. Vedendoci tacciono e una si nasconde il volto per nascondere un’improvvisa allegria, certamente suscitata da noi. “Si potrebbe” dico “fare la storia di queste quattro ragazze. Vita di paese, sogni, realtà. Lavorano tutte in uno scatolificio. Una è fidanzata, le altre no…”. “O viceversa” dice l’amico, ironico. Cade un lungo silenzio. Un reciproco risentimento per la nostra futile pretesa di adattare la vita degli altri alle nostre necessità ci fa imbronciati. Ah, la vita degli altri, fatta di giorni, uno dietro l’altro, e di cui il succo si coglie soltanto alla fine, e non sempre! Passa una signora: “Fai finta di niente,” dice l’amico “ma guarda che faccia. Indomita!”. E aggiunge, salutando: “Buona sera, signora”. Me ne racconta poi le prodezze. E così, per un’ora, i modelli che offriva la realtà ci sfilarono davanti. Noi chiedevamo a essi esattamente quello che essi chiedevano a noi: una storia. Infine, stanchi, decidemmo di riparlarne l’indomani. Non si inventa niente all’aperto. E copiarsi, che mal di testa!
[“Corriere della Seara”, 1956]
Il professore mi riceve seduto alla scrivania, dove finge di controllare certi appunti. Poi parla al dittafono. È forte, felice, attivo. La sua scrivania ricorda quella di un produttore cinematografico: amplissima, coperta da un cristallo, gli oggetti esposti sono inservibili e foderati di cuoio, a eccezione del paralume che è foderato di seta. “Segga, Signor Pagliano” mi dice gentilmente il professore. Perché poi Pagliano? (Forse un ricordo dello sciroppo contro la tosse). Seggo già triste, riandando nella memoria a tutte le storpiature del mio cognome: Fagliano, Floviano, Fragano, Fagiano. È così che una lingua si evolve, attraverso le varie interpretazioni dei vocaboli, altrimenti Caesar Augusta non diventerebbe mai Saragozza. Bene, il professore adesso mi fissa silenziosamente, con un lieve esercizio di ipnotismo amichevole, vuole costringermi ad abbassare lo sguardo. Ho visto una scena simile, ma dove? Infine parla: si rende conto che non sono un visitatore comune, si rivolge a una persona che può capirlo. Dice che tutti siamo malati in potenza, anche lui è un malato in potenza. Gli si stringe il cuore al pensiero dei malati in potenza che vanno in giro e ridono e scherzano, mangiano e si innamorano. Egli, per esempio, riconosce, “sente” il male a un chilometro di distanza: e io non posso immaginare quanta gente porta a spasso il suo male senza saperlo. Annuisco, pensoso. Ma dove ho sentito qualcosa di simile? Il professore mi fissa, sospirando.
Il telefono interrompe questa prima scena. Al telefono il professore parla chiaramente senza curarsi di me, parla di una grande impresa clinica che ha in animo di fondare al suo paese, dove cercherà l’accordo dei medici locali, che non si esimeranno dal favorirlo perché, soggiunge, alla sua impresa farebbe capo tutta la regione. Questo mi fa ricordare il mio paese. C’era una volta un dottore, laggiù, che tutti veneravano perché passava il suo tempo a curare i poveri; e c’era un altro dottore – per caso costui era un mio cugino – che voleva curare soltanto i ricchi. Ma ormai è passato molto tempo. Il buon medico che trascorre la notte al capezzale dell’infermo, aspettando con l’alba la risoluzione della crisi, è rimasto nella mitologia delle nonne. Il buon dottore che accettava il caffè e parlava col malato di altre cose che non la sua malattia, per tenerlo allegro, è stato ridicolizzato dagli antibiotici, dall’industria, dalle mutue, dalla nostra fretta, dagli specialisti, dai chirurghi, dalla dicotomia, soprattutto dalla nostra volontà di ammalarci, di non volerci sentire sani, per sfuggire le responsabilità di un mondo che non ha altro da offrirci.
Adesso il professore mi rivolge la parola: “Ho letto i suoi libri, signor Pagliano, conosco la sua attività, i miei complimenti. Dunque, Pagliano, mi dica”. Lo guardo senza rispondere, tentato di ridere. Il fatto che si ostini a chiamarmi Pagliano, dopo che ho corretto l’errore, mi dà, stranamente, la certezza di essere un altro e di stare benissimo. Ho solo voglia di andarmene. Tuttavia, per timidezza, accenno a una visita di controllo. “Una visita di Controllo Generale” dice il professore stringendo gli occhi, come sopraffatto dalla vastità che si propone. I suoi modi cambiano. Da questo momento sono un uomo perduto, mi tratta con la deferenza di un oggetto che non deve rompersi durante il trasloco. Eccomi disteso su un lettino, solo e seminudo, in un’altra stanza. Un’infermiera entra, mi guarda e dice: “Piove”. E’ una infermiera triste e bruttina, che incrina la sacralità della cerimonia, vi porta le sue preoccupazioni sentimentali. Trascorro così un quarto d’ora. Questa solitudine fa parte della cerimonia? Il paziente deve essere lasciato solo con le sue apprensioni, nell’attesa di un rituale tecnico? La lampada del soffitto decorata di alluminio lucido riflette la mia immagine deformata. Il lettino è freddo, la pioggia scroscia nel cortile. Il nostro tempo è sotto il segno di Kafka. Kafka era un genio ammalato e ha offerto le sue angosce agli uomini sani, che ne abusarono; così come il giovane Werther istituì il suicidio “moderno”, il puro rifiuto dell’esistenza, mettendolo alla portata di tutte le borse. Ah, datemi un eroe vittorioso, datemi Ercole che strappa Alcesti alle mani della morte con la sola forza delle sue braccia. Datemi il Circolo Pickwick!
Niente. La stanza è fredda, illuminata male, dall’alto. Buio a mezzogiorno, la colpa politica, la colpa di essere uomini liberi. Siamo maturi per l’ingresso del poliziotto che vorrebbe farmi confessare tutto e penso che sarebbe inutile prolungare il supplizio dicendo solo la verità, dovrei ammettere ogni ipotesi che mi venisse suggerita. “Voi siete un malato traditore”. “Sono pronto a firmarlo”. Ma il poliziotto tarda. Entra il professore coi suoi aiuti. Mi decifrano i battiti del cuore, una lunga striscia di carta che tutti scrutano in silenzio, con un sospetto di delusione. Viene un altro aiuto a togliermi un po’ di sangue. Per farmi aprire e chiudere la mano, affinché possa inturgidirsi la vena del braccio, suggerisce un vecchio scherzo: “Faccia ciao al professore”. Faccio “ciao”, pensando che anch’io sto bruciando il mio granello d’incenso sull’altare della Persuasione Generale, l’unica divinità oggi adorata. Debbo avere un’aria provocatoria, perché le mie reazioni sono medie, da sano immaginario. Il professore diventa serio. Mi osserva a lungo, mi ausculta e mi batte con dita e martelli glaciali. Niente. Insiste. Cnoc… cnoc…cafc…cafca… Ma che Kafka, il dottor Knok! Knok, o il trionfo della medicina. Atto III, scena VI: “…Ciò che non sopporto, è che la salute si dia arie di provocazione…”
[“Il Mondo”, 1960]
“Signore e signori, la trasmissione è stata sospesa per ragioni tecniche. Tra qualche giorno, sopita l’ultima minaccia, riprenderemo i nostri giochi di società, che danno alla nostra vita nazionale quel senso di vivacità che tanto ci lusinga. Cercheremo di venire incontro ai più sciocchi, agli esibizionisti di ogni tendenza, terremo qualche processo piccante, pubblicheremo le vostre memorie, compreremo calciatori ungheresi. L’essenziale è arrivare con fiducia alla prossima estate; dopodiché, riaperti i concorsi di bellezza, i premi letterari, i festival e le danze, potremo affermare a fronte alta che all’estero ci invidiano la nostra allegria”.
[“Il Mondo”, 1956]
Rimani aggiornata/o sui miei progetti e sui prossimi eventi.
©2020 Ferruccio Spinetti • All right reserved